martedì 4 settembre 2012

Racconto "La caduta dello status"

Il racconto "La caduta dello status" è stato pubblicato sul Manifesto di venerdì 31 agosto 2012 nell'ambito della rassegna "Resistenze noir".
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«Ehi… Come va?»

Chi è? Sono steso sull’asfalto, non riesco a parlare, ho la bocca gonfia e se mi muovo impazzisco dal dolore.
Che cosa è successo? La testa mi sta scoppiando, ricordo solo due tizi che mi hanno trascinato fuori dal bar e mi hanno massacrato di botte, poi… Poi niente. E questo qui? Chi è questo qui, cosa vuole? 

Sono in due dentro al bar, al terzo boccale birra, il bar sta per chiudere, ma loro se ne fregano. Uno ha una croce celtica al collo, l’altro i capelli corti che gli disegnano una svastica in testa. Ridono. «Forza, dobbiamo chiudere», dice l’uomo dietro il bancone. «E vaffanculo, cos’è, hai tua moglie che ti aspetta a casa col bastone?», sghignazzano quelli. Cominciano una gara di rutti, il barista è nervoso, nel locale oltre a quelli ci sono soltanto io. Sono appena le dieci di sera ma non c’è nessuno in giro, sembra notte fonda. È novembre avanzato e una timida nebbia comincia a creare un alone fitto attorno al lampione di fuori. I due escono dal bar e vedono la mia macchina. La prendono a calci. «Di chi è ‘sto rottame?», urlano. Io mi affaccio sulla porta, a protestare. Non ho un bell’aspetto, me ne rendo conto. Forse è per questo che mi afferrano per le braccia e mi trascinano in mezzo alla strada. Uno dei due mi tiene fermo, mentre il pugno di ferro dell’altro mi fa scricchiolare la mandibola.

«Chiamo un’ambulanza, aspetti, non può restare qui in queste condizioni, dove abita?»
Ma cosa sta facendo? Mi frega il portafoglio? Fa’ pure, non c’è un euro che sia uno, eh!
«Scusi, sa, sto cercando un documento. Ah, ecco. Carlo Morosini, via Gulli 18.»
«No», riesco a farfugliare. «Non… Non abito più là. E non voglio andare in ospedale, no…»
«Perché no?»
«No, per favore… lasciami qui, mi sento meglio, davvero, grazie.»
Mi rialzo a fatica, stringendo i denti, non voglio fargli capire che sto da cani.
«Ma scusa, lasciarti qui! Sei a cinque chilometri da casa tua, come fai?»
«Senti, grazie, però adesso non rompermi i coglioni. Grazie. Va’ fuori dalle balle.»
L’altro è incerto, non sa che fare. Alla fine mi dice:
«Dai, vieni con me, ti porto al caldo, così bevi qualcosa e poi vediamo. Io mi chiamo Alberto, tu sei Carlo, giusto?, l’ho visto sulla carta d’identità.» 
Riesce a portarmi nella sua macchina, una Peugeot 207 tutta ammaccata. Io non protesto più, non ne ho la forza. Mi siedo di fianco a lui tra mille sofferenze, bestemmiando in silenzio e maledicendo la mia città. La città che amavo, che mi dava un sacco di gratificazioni. A me, rampante promessa di una importante società di informatica. 

«Dottor Morosini, li legge anche lei i giornali. Nessuno investe più e noi siamo i primi a subirne le conseguenze. Fino a ieri abbiamo tenuto duro, ma capisce anche lei che con questo mercato qui, senza prospettive di sviluppo… Sì, lo so che non è giusto, lo so anch’io che quella del governo è una politica miope, ma che dobbiamo fare? Andare lì col mitra? A volte mi verrebbe la voglia, sa, ma che cosa otterremmo?»

Sorrideva, quella bestia. Era molto imbarazzato, forse sorrideva proprio per l’imbarazzo, una specie di tic nervoso. Fatto sta che dopo due settimane ero fuori. Fuori. Mi sembrava impossibile. La mia vita cambiata così, senza preavviso. Niente più pranzi al ristorante, niente più viaggi last-minute a Sharm, niente di niente. 

Mi vien da ridere quando penso che il SUV me l’ero comprato per far mangiare la polvere a quelle tartarughe che si affannavano con loro macchinine sulle tre corsie della tangenziale. «Pista, aria, sfigati!», gli gridavo pestando sul clacson.
Adesso quel SUV è la mia casa, ci dormo dentro. Almeno le coperte quella stronza di mia moglie (ex moglie, per la verità) mi ha permesso di portarmele via. E pensare che l’appartamento l’avevo comprato io, indebitandomi fino al collo, e quando la banca mi ha costretto a rientrare del finanziamento mi son dovuto mangiare tutta la liquidazione, rimanendo senza un euro in tasca. Che schifo, bastardi delinquenti assassini! Come se non fossi in grado di trovarmi un altro lavoro, gli dicevo, mica siamo in Africa, cazzo!, qui chi vale va avanti, come dice il nostro presidente del consiglio.
Avevo però fatto male i conti. La crisi vera era solo agli inizi, e ora masse di disoccupati salgono sui tetti delle fabbriche, cassa integrazione a manetta, ferie forzate, le mense dei preti assediate da masse cenciose, immigrati a fianco di operai e impiegati. E di quadri. Come me. 

Quanto tempo è che non la faccio andare, ‘sta cazzo di macchina? Due anni? Tre? Ho perso il conto. So solo che ha le ruote sgonfie. C’è un tanfo da far schifo, qua dentro. Per fortuna i finestrini sono oscurati da uno strato di polvere, così non mi vede nessuno… Questa piazza di notte è un via vai di negri e di froci, ci mancherebbe solo che venissero a darmi fastidio.
Quello che proprio mi disturba è questo continuo grattarmi. Di solito vado a lavarmi nei cessi della stazione, ma a volte me ne dimentico. La barba me la rado ogni settimana, e va bene, ma è il resto che non sopporto. I vestiti sporchi, la manica strappata, ‘sto cespuglio secco che ho in testa al posto dei capelli.
Per fortuna il barista qui di fronte ogni tanto mi lascia entrare e mi dà qualcosa da bere e da mangiare. Oppure ci sono le mense. Ne ho provate tante, ma quella del Cardinal Ferrari è la migliore, solo che c’è troppa gente, si mangia stretti, con la puzza degli altri che si mescola alla mia. Soprattutto la puzza dei negri e degli arabi, ‘sta gentaglia che prega col culo per aria. Non li ho mai potuti sopportare. Venuti in Italia a portarci via il lavoro, e adesso anche il mangiare. 

Dove mi sta portando questo Alberto? Mi pare che stiamo andando alla Bovisa, faccio fatica a raccapezzarmi, ho un fuoco che mi esplode in testa, il labbro spaccato e un male ai fianchi che mi impedisce di starmene fermo, mi muovo di continuo per trovare una posizione che mi faccia passare il dolore ma niente. Mi lamento, e Alberto mi dice «Dai, sta’ buono, che siamo quasi arrivati». Non c’è un cane in giro, tutti se ne stanno tappati in casa. Li capisco, con certa gente che va in giro di notte. 

Un cancello su una via che non riconosco. Alberto suona il campanello ed entriamo. Buio pesto, un vialetto pieno di pietre, macerie, sterpaglia, sembra un cantiere edilizio in disuso. Arriviamo a un edificio in fondo, grande, una macchia nera che si confonde col buio della notte, con finestre alte e strette dalle quali esce una flebile luce. La porta del fabbricato si apre e un nero alto e minaccioso ci accoglie con un gesto secco. Ho paura, dove cazzo sono capitato? All’interno un grande stanzone gremito di tavoli e di gente. Uomini e donne, anche molti neri, sudamericani, giovani e meno giovani, che bevono, leggono, parlano, discutono a voce alta. Sulla destra, nella semioscurità, un bancone dove spillano la birra. A sinistra una sorta di palco, che sembra approntato per ospitare dei concerti, grandi casse acustiche, microfoni, una chitarra appoggiata su una sedia. E in fondo una biblioteca che copre l’intera parete con un mare di libri. A ridosso, sul pavimento, una fila di brande e materassi.

«Ma dove siamo?»
«Nel centro sociale Mooh.»
Merda. Un centro sociale! 
«E che ci fate qui? Ci dormite pure?»
«Di solito no, di solito organizziamo concerti, dibattiti, letture, studiamo, ascoltiamo musica, giochiamo a carte… Poi ce ne andiamo e qui rimangono solo due o tre persone a fare la guardia. Stasera però ci siamo tutti, perché domattina vogliono sgomberare anche noi. Il prefetto dice che questo è un covo delle brigate rosse, il coglione non ha capito un cazzo di che cosa è diventata ‘sta città, soprattutto con questa crisi che ci massacra da cinque anni… Dai, prendi una birra. Ti fa ancora male? Fascisti bastardi! Ti volevano ammazzare, eh?»
«Pare proprio di sì… Ma domani vado in questura e…»
«Ma ci sei o ci fai? Non ti scomodare, qui domani mattina ne vedrai un battaglione, di pulotti. Anche se mi sa che avranno altro da fare che ascoltare te!» 

Non so cosa pensare. Giro tra i tavoli, ci sono animate discussioni di cui capisco ben poco. Parlano di come organizzarsi per difendersi, ma anche di “quanto sia necessario contrastare questa umanità barocca che tenta di riempire la sua vita inutile consumando crociere ridicole, inquinando e devastando i mari. Mentre gli ecosistemi sprofondano e i bombardieri seminano strage per accaparrarsi le ultime pozze di petrolio." Ma come cazzo parlano? 
Mi si avvicina uno, lo sento chiamare Mario, è un po’ fumato, e comincia a declamare tutto d’un fiato.
«Il Grande Fratello, capisci, come Anche i ricchi piangono, o Saranno famosi prima di loro, è parte di un sistema di format a diffusione imperiale, lo trovi uguale in Corea, in Canada o in Egitto, capisci, perché il loro scopo è colonizzare subliminalmente la mente del parco buoi, della massa lumpen-cetomedio e convogliarla giù dal burrone come una mandria di bisonti, capisci, costringerli a essere cultori parossistici della propria improbabile importanza personale, per consumare sempre di più… Ma tu chi sei? Sei venuto a darci una mano contro la milizia armata dell’impero? Dai, parco buoi, che ti trovo un posto per dormire.» 

Sono qui, sdraiato su una branda improvvisata. Adesso il dolore è un po’ passato, mi sono anche sommariamente lavato. Solo il labbro è ancora gonfio. Non so cosa fare. Non c’entro niente io, con questa banda di anarchici. Sono un quadro aziendale, io, la mia è una situazione passeggera, mica durerà per sempre ‘sta crisi del menga! Le cose cambieranno, certo, tornerò a essere quello di prima. E che cazzo, non può girare sempre storta.
Sì, domattina presto uscirò di qui, prima che arrivi la polizia. Non voglio trovarmi in mezzo a questa gente, al casino che combineranno. Al solo pensiero mi si accappona la pelle. 

Ma non faccio a tempo.
Non è ancora l’alba che fuori si sentono arrivare le camionette piene di poliziotti. Saltano giù come razzi, equipaggiati come tanti robocop, in assetto antiguerriglia, con le tute nere e i caschi con la visiera, come avevo visto alla televisione tanti anni prima, a Genova nel 2001. Un tipo col megafono vestito in borghese ci intima di sgomberare o darà l’ordine di costringerci con la forza. Cento vaffanculo risuonano all’unisono, come un boato. Escono tutti fuori, donne e uomini, a fare muraglia, solo io resto dentro, ancora dolorante e paralizzato dalla paura. Due eserciti, uno di fronte all’altro. Da una parte l’esercito in nero, indifferenziato, armato di tutto punto, che batte all’unisono i manganelli sugli scudi, dall’altra una moltitudine multicolore di individui armati di sassi, di rabbia e di parole. Grida da entrambe le parti, prima isolate, poi sempre più massicce. Partono le prime sassate, cui l’esercito in nero risponde con lanci di candelotti lacrimogeni ad altezza d’uomo. Uno di questi finisce dentro la casa, l’aria si riempie di una sostanza che mi fa lacrimare, che mi entra dentro nei polmoni, non respiro più, mi sento soffocare, mi precipito fuori nel fumo addensato della guerriglia, oltrepasso la muraglia colorata, corro verso i liberatori con le braccia alzate, non sparate, urlo, non sparate, io non c’entro con questa gentaglia! 

Forse ho corso troppo forte. Qualcuno avrà pensato che tenessi in mano chissà che cosa. Qualcuno avrà avuto paura e ha sparato. Una pallottola mi entra dritto nel cuore. Mi fermo, incredulo. Tutto il mondo si ferma intorno a me. Tutto rallentato, dilatato. Anche le urla mi arrivano attutite. Poi silenzio. Come se avessi le orecchie tappate. Mi hanno sparato. Hanno sparato a me. A me. Ma che cazz… Scivolo a terra come un sacco vuoto. Mentre il boato ricomincia, improvviso. Corpi che cozzano contro gli scudi e le armature, teste spaccate dai manganelli, fumo, grida, spari, donne trascinate per i capelli, visiere frantumate dai sassi, sangue che cola sugli occhi.  
Ma io non sento più nulla.
Riesco solo a pensare che oggi la città si sveglierà stanca e avvilita come sempre. E che si preannuncia una giornata di pioggia. Fanculo, mondo.

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