lunedì 7 novembre 2011

Un commento di Matteo Di Giulio della rivista LINSOLITO con un estratto del romanzo

Città contro di Alessandro Bastasi è un giallo d'inchiesta che di classico ha poco o niente. Parla di immigrazione, il piglio sociale è il punto di forza del romanzo ma anche lo sguardo acuto dell'osservatore medio che, per una volta, non ha voglia di tenere la bocca chiusa. Prosegue quel percorso civile sul Nord Est razzista e iniquo iniziato dall'autore con il precedente La gabbia criminale, sempre per Eclissi, e nella storia di immigrati sfruttati e di associazioni di volontariato che non se la passano mai troppo bene, ci scappa anche stavolta il morto. Quel morto necessario al ritmo, sempre ben dosato, e ad appassionare facendo riflettere. Operazione ancora una volta, e ancor di più, stilisticamente parlando, riuscita.
Proponiamo in anteprima un estratto del romanzo.
* * *
Viaggiano nella notte, in silenzio. Il traffico è scarso, l’andatura è regolare, il ronzio del motore culla la mente di Modibo, che si assopisce.
Si sveglia di colpo poco dopo Meolo, quando la macchina rallenta per voltare a destra, su una strada secondaria che già dopo duecento metri si confonde con il buio assoluto della campagna. Nessun lampione, nessuna casa abitata, nessun segno di vita.
A circa un chilometro l’asfalto termina e inizia uno sterrato polveroso, pieno di sassi, che mette a dura prova le sospensioni della Mercedes.
«Tutto bene?» chiede l’uomo, secco ma cordiale.
«Sì, tutto bene» risponde Modibo. In realtà ha un po’ di timore, l’africano, non sa dove lo stia portando, non sa quale destino lo attenda, in ogni caso è robusto e saprà difendersi, se sarà necessario.  Il Moro gli sorride. Lui risponde al sorriso.
«Ci siamo quasi» lo rassicura l’uomo.
Un altro chilometro e la macchina volta lentamente a sinistra, in un percorso cosparso di pietre, di macerie e di sterpaglia, dove il buio sembra essere ancora più fitto. Gli abbaglianti arrancano, si fanno strada attraverso densi sciami di insetti instupiditi,  illuminando buche simili a voragini che il Moro riesce a evitare con abilità. Modibo è teso, chino in avanti, una mano sul cruscotto, come per trovare un appoggio che lo rassicuri.
Il tragitto non è lungo, solo qualche minuto. Fino a che una macchia scura, prima confusa col nero della notte, non si materializza all’improvviso davanti a fari della Mercedes. E’ un grande fabbricato a due piani, posto di traverso, con davanti un ampio spiazzo.
L’uomo ferma la macchina e spegne il motore. Sono arrivati. Soltanto il pulsare ininterrotto di un generatore elettrico rompe il silenzio inquieto della campagna circostante.
Modibo e l’uomo scendono dalla macchina, l’africano fa per muoversi, ma l’altro lo blocca. Alcune flebili luci che filtrano dalle finestre senza imposte fanno intravvedere la struttura dell’edificio, un unico blocco diviso in mezzo da un ampio portico che un tempo serviva per mettere al riparo i carri e gli attrezzi agricoli. In quello spazio una porta si apre e un nero alto e minaccioso li accoglie con fare sospetto e diffidente.
«Selim, sono io!» dice il Moro ad alta voce.
Il nero chiamato Selim lo riconosce, riconosce la Mercedes, e con un gesto brusco fa loro cenno di entrare.
Quella che un tempo era la grande cucina della casa colonica adesso è un dormitorio. Almeno quaranta uomini trovano posto su brande o materassi adagiati per terra, dietro a loro le sacche con qualche abito di ricambio, e qua e là dei fornellini Campingaz sui quali era stata preparata la cena. Nell’aria un odore avariato di cibo, unito a quello di fumo di sigarette e di grappa di quart’ordine. Un filo elettrico scende dal centro del soffitto a sostenere una lampadina nuda che fatica a rischiarare gli angoli della stanza. In quello in fondo a destra Modibo riesce a notare qualcosa di simile a una massa di stracci sovrapposti, poi, a mano a mano che gli occhi si abituano alla semioscurità, mette a fuoco meglio e se ne accorge.
E’ un uomo. Seduto contro il muro, con i piedi incatenati a un supporto di ferro conficcato nel pavimento. D’istinto Modibo va verso di lui, ma Selim lo blocca, una mano d’acciaio gli artiglia la spalla.
«Non si può. Quello oggi ha fatto lo stronzo. Niente parlare con lui. Niente cena.»
Solo ora Selim si accorge della deformità del viso del nuovo arrivato e non nasconde una smorfia di sorpresa.
«Tutto bene, Selim» lo rassicura il Moro, «è uno bravo, ogni tanto beve, ma se fa casino non ci vorrà molto per fargli capire di smetterla. Ti hanno avvertito i miei uomini?»
«Si, mi hanno avvertito» gli fa eco il nero. «Può dormire di sopra. Cinque euro a notte.»
Modibo ancora non capisce.
«E dove li trovo? Non ho lavoro.»
«Il lavoro te lo troviamo noi» lo rassicura il Moro. «Qualche giorno lavori e qualche altro no, ma vedrai che riuscirai a pagare.»
«Che lavoro è?» chiede Modibo, guardandosi attorno.
«Muratore. La mattina passano i camion, prendono gli uomini che gli servono e si va al cantiere. Spera di essere tra quelli, e tutto andrà bene. Venticinque euro te li porti a casa. Cinque a me, cinque a quello del camion, il resto te lo tieni.»
«E se non mi prendono?»
«Ti prenderanno il giorno dopo, siamo d’accordo così, si va a rotazione, non devi preoccuparti.»
«Ma che lavoro devo fare? Non ho mai fatto il muratore, io ero un sarto!»
«Ti diranno loro cosa devi fare.»
«Loro chi?»
«Tu domani vai dal capocantiere e gli dici: che cosa devo fare? Penserà a tutto lui.»
Un attimo di pausa, il cervello di Modibo in ebollizione, il silenzio di tutti quegli uomini che lo fissano immobili, inespressivi.
«Beh, io vado» conclude il Moro. «Buon lavoro, vedrai che ti troverai bene. Selim sembra un cane da guardia, ma in fondo è un nero come te, conosce i tuoi problemi, vero, Selim?»
Un lampo di rabbia saetta dagli occhi di Selim mentre congeda l’uomo.
«Ok, qui hai finito, Moro. Ci vediamo.»
«Ehi, che fretta… A proposito, quanti uomini hai qui?»
«Ottanta.»
«Erano ottantacinque. Più questo di stasera, ottantasei.»
«Cinque sono scappati. Ti ho mandato un’email l’altro giorno.»
«Cazzo! Non fare il furbo con me, eh, che ci metto un attimo a mandare tutto in malora.»
«Niente furbo, va su e controlla se vuoi.»
«Prima o poi lo faccio, quando meno te lo aspetti, vedrai. A proposito, sabato vengo qui, fatti trovare, ché dobbiamo fare i conti del mese.»
«Ma vaffanculo.»
Il Moro ride.
«Trattamelo bene questo qui, eh?»
«Certamente» fa Selim, gelido. «Adesso va’ via, ché domani loro devono alzarsi presto.»
«Fanculo, keniota del cazzo.»

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